Dall'Italia e Mondo Psico-Riflessioni

Benvenuti nell’era del “languishing”: vissuti emotivi dopo un anno di emergenza sanitaria

Secondo il “The New York Times” l’emozione che ci accompagnerà per tutta la durata dell’anno corrente si chiamerebbe “languishing”, la cui traduzione italiana suonerebbe più o meno come “languire”.

L’autore dell’articolo, Adam Grant, Psicologo della University of Pennsylvania precisa che si tratterebbe di un “senso di stagnazione e di vuoto” simile, metaforicamente parlando, alla sensazione di “guardare la vita attraverso un finestrino appannato”.

Non sarebbe un disturbo mentale in senso stretto ma una condizione di assenza di benessere psichico comune a molte persone e causata dal fronteggiamento, della durata di oltre un anno, della pandemia da Covid-19. L’autore sottolinea che tale termine non comprenda al suo interno tutta quella serie di reazioni psicopatologiche di rilievo clinico (depressione, disturbi d’ansia, condotte autolesive adolescenziali …) che potrebbero essersi determinate o slatentizzate, in talune persone, nel corso dell’ultimo anno. Il “languishing” riguarda, comunque, una risposta da stress prolungato e, in quanto tale, merita di essere considerata di pertinenza dei professionisti della salute mentale.

Quando la notizia dell’uscita di questo articolo ha iniziato a fare il giro del web, ho letto questa nuova definizione con un senso di timore e curiosità, facendo alcune riflessioni.

La prima, forse la più banale, riguarda la necessità squisitamente umana di dare forma alla nostra esperienza, fisica ed interiore, attraverso il linguaggio. Non basta, infatti, “sentire qualcosa”. Ci serve, per un bisogno psicologico di definitezza e comprensione, “dare un nome” a quello che sentiamo. L’esperienza diviene, infatti, comprensibile a noi stessi solo quando è riconosciuta e nominata. Nel mio lavoro, mi capita spesso di chiedere ai miei pazienti “cosa hai sentito?/”cosa stai sentendo in questo momento?”. La risposta non è mai facile e scontata: in molti casi, constatiamo insieme che mettere in parola ciò che ci abita ed attraversa è spesso una meta più che un prerequisito.

Non solo: nominare la nostra esperienza interiore la rende narrabile ad altri, consentendoci di “metterla in comune” e normalizzarla. Se abbiamo un termine per chiamare questo nuovo modo di sentire significa, quindi, che se ne può parlare dando per scontato che l’interlocutore conosca ciò che sto dicendo e abbattendo, quindi, il muro dell’incomprensibilità o della vergogna.

Vederlo scritto in un articolo, inoltre, fa presupporre una realtà che può avere anche un effetto tranquillizzante sull’esperienza del singolo poiché veicola il messaggio “non sei solo. Altri hanno, come te, la sensazione di guardare la propria vita attraverso un finestrino appannato”. Questa conclusione è affascinante e ci collega direttamente ad un concetto teorico di fondo che spesso accantoniamo: le emozioni universali sono innate. Paura, gioia, rabbia e tristezza sono vissuti emotivi identici in tutti gli esseri umani, come dimostrano anche studi cross-culturali su popolazioni che abitano aree geografiche tra loro molto distanti. Su larga scala, quindi, esiste probabilmente davvero una “reazione emotiva globale” al trascorrere del tempo in emergenza sanitaria che, da oggi, sappiamo di poter chiamare “languishing”. In pratica, mancava dargli un nome, non il “sentirlo esistere”.

Cosa ci facciamo con questo “languishing”? Innanzitutto, godiamo della possibilità di definirlo e di riconoscere che ciò che ci accade è un dato “statisticamente significativo” nella popolazione generale e, quindi, comune ad altri. Non siamo strani: stiamo provando qualcosa che altri provano o hanno provato, perché siamo persone e le persone reagiscono in questo modo a fronte del perdurare di una situazione di fatica, paura ed annientamento di prospettiva.

Cosa possiamo fare?

  • Accogliere l’emozione, così come emerge e senza giudizio (senza dirsi che non bisognerebbe provarla perché non è adeguata);
  • Dedicarci alla cura di noi stessi, nutrendo il nostro corpo in maniera corretta, facendo attività fisica, riservandoci dei momenti di benessere con massaggi, bagni rilassanti … . La cura del nostro corpo attraverso la manipolazione (massaggi, carezze …) ci riconduce alle prime esperienze di contatto sperimentate nella nostra infanzia all’interno del legame primario e simbiotico con le nostre madri. Il corpo rimane, quindi, un importante veicolo di informazioni per la nostra mente, tra cui quelle relative alla calma, al rilassamento e al nostro esserci nel momento presente;
  • Ritagliarci degli spazi per coltivare o riscoprire le nostre passioni (anche quelle che abbiamo messo nel cassetto a causa del sempre poco tempo a nostra disposizione);

 

Il superamento di un tabù sociale in merito ai vissuti di affaticamento ed “appannamento” della nostra prospettiva di vita dovrebbe spingerci a condividere con altri il peso del momento che stiamo vivendo. La condivisione e la creazione di una rete sociale di supporto sono, infatti, due elementi cardine del processo di resilienza utile al superamento di situazioni di stress. Anche in questo come in altri casi, può rivelarsi utile rivolgersi ad uno psicologo per beneficiare di un ascolto partecipe e non giudicante, premessa essenziale per prendersi cura di Sé e ripartire.

 

Dott.ssa Marta Ostinelli, Psicologa

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