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Ma i nostri nonni festeggiavano il Carnevale?

Carnevale ambrosiano a Milano

Ogni festa ha un senso preciso, ma non il Carnevale.

Esso arriva, impazza per strade e piazze, e poi se ne va, lasciandoci a rimuginare sull’estate ancora lontana ed un nuovo anno da affrontare appena iniziato…

Una festa un poco criptica, il cui senso sfugge, in cui non c’è nessun Santo da ricordare, nessuna vittoria da celebrare, nessun personaggio da innalzare agli altari…

Eppure le sue radici, seppur lontane nel tempo non sono mai seccate: da tempi immemori i popoli latini e balcanici non vi hanno mai rinunciato, portandolo anche oltre oceano, diventando un tratto distintivo e tipico anche per la cultura latino- americana, sia essa di ascendenza iberica o francese.

Anche se oggi le sfilate di carri allegorici sono organizzate dalle amministrazioni comunali di grandi comuni, magari con un non troppo celato intento di promozione turistica, il Carnevale nasce in quegli ambienti dove erano le piccole comunità rurali a costituire il fulcro della società europea; comunità piccole, ma compatte, capaci di un’organizzazione spontanea che nasce dalla cooperazione necessaria al lavoro agricolo.

Quelle comunità che vedevano nell’inverno il demone crudele che con le sue piaghe di gelo, ghiaccio, fame ed epidemie, tornava a calare sui villaggi ogni santo anno mettendo a dura prova l’esistenza stessa dei nostri antenati. Solo se la stagione precedente era stata clemente, e i granai erano pieni si poteva affrontare un nemico così potente e sperare di vincerlo.

Maschera del Carnevale di Schignano

A questo punto non c’è da stupirsi se, con i primi tepori, a questi poveri contadini venisse voglia di festeggiare… e festeggiare come si deve perché chissà cosa riserverà l’anno appena iniziato, per non parlare del prossimo inverno…

Ecco allora che si festeggia come e non ci fosse un domani, come se quest’anno fosse l’ultimo, e chi se ne importa delle regole sociali… invertiamole perfino! Facciamo che siano i Matti a comandare, anzi, eleggiamo un Re dei Matti, un Re del Carnevale che comanderà in questo breve periodo di follia collettiva…

Lasciamo che sia la parte irrazionale, quella parte che abbiamo sacrificato per tutto il resto dell’anno ad avere sfogo! Chi festeggia non è più quello che conoscevamo fino al giorno prima, difatti porta perfino una maschera, a mostrare che ha cambiato valori, usanze, identità.

Nella cultura europea, in questi villaggi così ben organizzati, anche questo sfogo si codifica in rituali precisi, che non vanno però ad aggiogare l’irrazionalità, ma, anzi, hanno lo scopo di fare uscire questa parte folle che è in ognuno di noi, ma che è atrofizzata e stenta a urlare, danzare, esplodere…

Maschere al Carnevale di Schignano

Ecco che alcune comunità hanno conservato fino ad oggi maschere mostruose, non pagane, ma dis-umane, animalesche, animate da uomini che rinunciano alla civiltà per qualche ora, che in alcuni casi lottano, e fuggono da quelle eleganti, infiocchettate e garbate che vorrebbero domare e ridurle a più sobri comportamenti…

Sto pensando al vicino e celebre carnevale di Schignano, dove la vecchia “Ciocia” si sfoga pubblicamente della sua situazione di donna-schiava di un marito beone e fannullone, dove i dignitosi “bei” si contrappongono ai “brut” (o “mascarun”), bestiali e dispettosi. Dispettosi sì, ma mai violenti perché il carnevale è talmente fuori dagli schemi che non contempla la violenza, che è un tratto invece così spesso coltivato nell’essere umano.

Ma sto pensando anche agli altri carnevali “tradizionali” patrimonio d’Europa: dalle montagne calabresi ai Pirenei, dalle pianure del Danubio alle fiabesche Alpi Tirolesi, queste mascherate si rassomigliano come ciliegie dello stesso albero, a testimonianza che quello che cova nell’animo umano è identico in ogni parte del mondo, a dispetto di confini, lingue e passaporti diversi, e uguale è anche il modo di manifestarlo, di metterlo in piazza.

Bimbi del Carnevale di Schignano

Ma queste perle tradizionali sono oggi rare: già i primi vagiti dell’industrializzazione andarono ad eroderne le fondamenta, più di cento anni fa, ed oggi sopravvivono solo là dove l’era moderna non ha imposto i suoi dogmi sociali così schiettamente. Oppure là dove il carnevale è diventato un segno distintivo di un campanile, di una comunità, contrastando in maniera più o meno consapevole quel modello così razionale che ha conquistato il resto d’Europa e svolgendo quindi la sua più profonda ed importante funzione.

Veramente flebili sono i ricordi raccolti altrove, le maschere dimenticate: sia il loro ruolo e la loro mimica, sia il loro costume, fosse esso di pelle, di legno, di corteccia, di cartone, di paglia o di cuoio… un patrimonio intero di usanze, invenzioni e trovate geniali, che non si sono rinnovate e non si rinnoveranno mai più, bruciate nel rogo dell’oblio.

Probabilmente era questo il loro destino, già scritto dalla natura stessa del Carnevale, che fa sempre una brutta fine: impersonificato in un fantoccio subiva un destino crudele: poteva venire impiccato, annegato, oppure, come a Schignano (dove il pupazzo prende il nome di “Carlisepp”, ossia dell’Imperatore Carlo Giuseppe… insomma, dell’ordine costituito) arso nel falò dell’oblio, assieme all’inverno e a tutte le brutte cose dell’anno passato…

 

Un articolo di

Ulisse Sacramegna